“Tutto ciò che è profondo ama la maschera”
(Friedrich Wilhelm Nietzsche, Al di là del bene e del male)
Ma le maschere non sono un semplice gioco carnevalesco di dissimulazione del proprio viso e quindi della propria esteriorità?
La risposta è decisamente più complessa: ciò che sta in superficie, cela quello che sta nelle profondità, l’entità profonda ha bisogno di una maschera per nascondere alla luce la sua vera essenza e per poter poi manifestarla al mondo visibile, opportunamente filtrata.
Quindi la vera essenza non è identificata certamente con la maschera che appare, ma è con essa che si manifesta e che agisce nel mondo (Giovanni Pelosini).
Gli attori e i modelli utilizzano la loro corporeità e la loro espressività come maschera, veicolano, accessoriandosi o spogliandosi, l’effetto seduttivo che il pubblico e la gente comune si aspetta da loro. Difficile risulta quindi riuscire a trovare un equilibrio-identità quando il “lavoro” costringe ad uscire costantemente dalla propria pelle.
Ogni uomo o donna nella quotidianità indossa maschere cristallizzate per ricoprire i ruoli sociali che gli altri si aspettano (mamma, fidanzato, figlia, nonno, amica, collega…) e agisce di conseguenza.
Un aspetto molto dibattuto in sociologia è la relazione tra personalità e ruolo, ossia l’assunzione di un ruolo da parte di un attore solitamente non è solo un’operazione di performance, ma prevede anche un’identificazione con aspetti e significati simbolici ed espressivi connessi al ruolo e assegnati dai modelli culturali. Attraverso un ruolo l’attore cerca così di comunicare anche un’immagine del sé e quando si produce una discrepanza tra ruolo-immagine, ci sono meccanismi pre-codificati utili a ristabilire la coerenza (spiegazione, scuse, indignazione e ironia).
Non dal volto si conosce l’uomo, ma dalla maschera.
(Karen Blixen, Sette storie gotiche, 1934)
Katia